Archivio | dicembre 2015

Convegno a Saluzzo:non si convive con il lupo

(18.12.2015) Si è svolto a Saluzzo presso l’Antico Palazzo Comunale, nella serata di giovedì 17 dicembre, il convegno “Il lupo sugli alpeggi” organizzato dall’Associazione Difesa Alpeggi Piemonte – Adialpi, per dare voce “a chi vive questa realtà ogni giorno attraverso il proprio lavoro” senza lasciarsi ingannare dalle tante parole (e denaro pubblico) spesi per i progetti sul lupo in Italia, finanziando enti, parchi ed associazioni, senza minimamente curarsi delle difficoltà degli alpeggiatori.
Saluzzo
Ad aprire la serata è stato il Presidente dell’Adialpi, Giovanni Dalmasso margaro di Crissolo, che ha descritto le attività dell’associazione, la lotta alle speculazioni sugli alpeggi che hanno fatto innalzare i canoni di affitto dei pascoli, e l’attuale coinvolgimento nei tavoli della Regione Piemonte sulle scelte della politica agricola.
“Il lupo è una delle tante problematiche degli alpeggiatori – afferma Dalmasso – di cui se ne potrebbe fare volentieri a meno. Anche i nuovi parchi naturali che si stanno insediando in Piemonte non sono altro che un grattacapo per chi lavora in montagna, con nuovi vincoli, regolamenti e difficoltà per chi deve vivere in questo ambiente. La colpa è soprattutto dei sindaci di montagna che non si sono battuti per rappresentare i loro cittadini ma hanno guardato soprattutto al loro interesse.
Il lupo si era estinto dalla nostra regione agli inizi del ‘900, poi è stato reintrodotto, ora è tornato a creare danni, ad attaccare le mandrie e i greggi, mettendo in difficoltà i pochi allevatori rimasti sulle nostre valli.
E mentre si continuano a  sprecare milioni di euro per finanziare i numerosi progetti lupo come Wolfalps, i margari sono lasciati sempre più soli, incapaci di difendersi; gli stessi sistemi di difesa sono inefficaci: il lupo continua a predare gli animali, i cani da guardiani sono pericolosi per i turisti e i risarcimenti non sono sufficienti a pagare i danni subiti. Il nuovo Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia presentato dall’Unione Zoologica Italiana lo scorso 19 ottobre su incarico del Ministero dell’Ambiente è un altro esempio di errata gestione del problema, creato da un gruppo di esperti di lupi ma inevitabilmente inesperti in pastorizia. Stiamo rischiando di mettere a rischio il futuro dei pastori e di conseguenza, mancando il loro lavoro nella conservazione del territorio, avremo gravi danni per l’ambiente.”
L’intervento del professor Michele Corti, docente di zootecnia montana presso l’Università di Milano e rappresentante dei pastori lombardi, ha analizzato la diffusione del lupo non solo sulle Alpi e sugli Appennini ma a livello europeo è possibile notare, negli ultimi decenni, una grande diffusione del predatore. A differenza dell’Italia però, in quasi tutti gli altri Paesi sono stati autorizzati degli abbattimenti in seguito alle richieste del settore agricolo. Il lupo viene cacciato in Svizzera, Francia, Svezia e molti altri stati, nonostante il predatore sia tra le specie specialmente protette dalla convenzione di Berna e dalla direttiva Habitat.
“In Italia – spiega il professor Corti – sembra che l’abbattimento del lupo sia una parola da non pronunciare assolutamente, impossibile da realizzare in quanto la legislazione non lo permette. Il lupo ha trovato nelle nostre montagna un territorio pieno di cibo, in cui nessuno gli fa del male: il paradiso. Mentre per i pastori questa situazione si sta trasformando in un inferno. Ma è poi vero che il lupo è l’unica cosa importante e tutelata? Esistono molte altre convenzioni internazionali volte a tutelare le pratiche agricole, la biodiversità delle razze animali autoctone, la cultura locale, oltre a norme fondamentali che tutelano la sicurezza, la liberta economica, la proprietà. Tutte queste tutele, sono diritti che vanno difesi: non si può dare come unica priorità la conservazione del lupo ma serve il giusto compromesso.
Intanto il lupo sta arrivando in pianura e vicino alle grandi città mentre sui pascoli la situazione è insostenibile: le recinzioni non bastano, il lupo non si mangia solo le pecore ma in alcuni casi si sbrana addirittura il cane da guardia, gli indennizzi sono troppo bassi, spesso non concessi.
Le conseguenze? I pastori si stufano di denunciare le predazioni, molti alpeggi non vengono più pascolati, le misure di difesa si scontrano con il corretto utilizzo dei pascoli e il benessere animale.
Le soluzioni? Coordinare gli allevatori delle diverse zone interessate dal ritorno del lupo in Italia (Piemonte, Veneto, Toscana,..) e in Europa per scambiarsi informazioni, agire con azioni politiche e legali, mettere in atto progetti pro-pascoli, turismo rurale, prodotti, cultura alpina. Fare in modo che non siano le Alpi del lupo ma le Alpi dell’uomo.”
Il Presidente di Alte Terre, Giorgio Alifredi, in quanto allevatore della Valle Maira ha espresso la sua volontà nel potersi difendere in caso di attacchi: “Finché esiste l’allevamento e la pastorizia dobbiamo poter difendere i nostri animali dagli attacchi. Non pensate che il pastore abbia il tempo di andare a caccia del lupo, ma nel momento in cui un predatore attacca il gregge devo poterlo allontanare, non posso stare a guardare mentre si sbrana i miei animali, il mio lavoro.”
Alifredi ha poi esposto il “manifesto antilupo” redatto dalle associazioni AlteTerre e Adialpi con il quale si vuole portare alla politica europea quali sono le difficoltà che ha recato il ritorno del lupo sulle Alpi e quali provvedimenti occorre attuare per far si che la pastorizia non scompaia dalle nostre montagne. “L’unica soluzione efficace – riporta il documento – per risolvere a lungo termine il conflitto tra predatori e gente di montagna  è mettere in discussione la Direttiva Habitat e uscire dalla Convenzione di Berna: in effetti, la vera specie che rischia ormai l’estinzione sulle Alpi non è certo il lupo, ma l’essere umano, in particolare il contadino e la sua famiglia!”
Tra gli interventi anche Daniele Massella, allevatore della Lessinia in Veneto, che descrive la situazione delle vallate veronesi dopo l’arrivo dei lupi: “Sugli alpeggi ci sono meno animali perché molti malgari non si fidano più a lasciare le vacche al pascolo, preferiscono tenerle in stalla, nonostante i costi più elevati. I risarcimenti non sono abbastanza alti, non si tiene conto del giusto valore genetico degli animali. La convivenza tra lupi e zootecnia è impossibile: occorre cambiare le leggi che lo tutelano altrimenti gli allevatori scompariranno dalle nostre montagne.”
Aiassa Tiziano, margaro di Limone Piemonte ha descritto la sua situazione: “Sono un allevatore di bovini di razza Piemontese. In cinque anni ho subito 30 perdite per attacco da lupo. I primi anni mi venivano risarciti. Ultimamente nemmeno quello: i veterinari dell’Asl, incaricati di fare le perizie delle predazioni in campo, non vogliono attestare che si tratta di attacchi da lupo e gli animali oltre i 3 anni non sono comunque indennizzati. Oltre al danno, veniamo messi in dubbio delle nostre dichiarazioni. Serve una controperizia oltre a quella dell’Asl per i casi in cui questa non sia sufficiente.”
Il sostegno all’iniziativa dell’Adialpi è arrivato anche dal vicepresidente di Federcaccia Piemonte,  Alessandro Bassignana che afferma: “Il lupo c’è e lo vediamo, si sta avvicinando alle città. In montagna il numero di animali selvatici è notevolmente diminuito dopo il ritorno del lupo. Sulla questione del ripopolamento e della sua possibile reintroduzione posso dire che, se il lupo delle Alpi dovrebbe teoricamente essere arrivato dagli Appennini, non si spiega il fatto che gli avvistamenti siano avvenuti diversi anni prima nel torinese che in Liguria.”
Pierangelo Cena di CIA Torino ha ribadito il suo appoggio alle iniziative per difendere l’attività dei margari sugli alpeggi: “Come organizzazione agricola ci siamo già impegnati nella raccolta firme contro il lupo sugli alpeggi. Siamo disponibili ad eventuali proposte. Il lupo ormai non è più in pericolo di estinzione, noi riteniamo servano nuove azioni per gestire il problema.”
Dal punto di vista politico, oltre agli interventi di vari sindaci locali che hanno sottolineato il loro ruolo all’interno del Coordinamento Gente di Montagna nato proprio per rappresentare le diverse problematiche del territorio alpino, è intervenuto Emiliano Cardia, rappresentante della segreteria dell’europarlamentare Alberto Cirio, che ha sottolineato la necessità di coordinare le proposte e le forze delle diverse associazioni agricole e di categoria affinché ci possa essere un fronte unico di proposte da avanzare alla politica. Sono infatti i politici che rappresentano il territorio che hanno il dovere e la possibilità di cambiare le regole laddove ci sono delle problematiche.
In conclusione della serata il Presidente Giovanni Dalmasso ha ricordato l’importanza di tutelare chi lavora in montagna, in particolare gli allevatori che svolgono un ruolo fondamentale nella conservazione del territorio. Sulle nostre vallate non serve il lupo ma chi è indispensabile è l’uomo.
“Come associazione dei margari – conclude Dalmasso – continueremo a farci sentire per ottenere delle misure utili a difendere il nostro lavoro, collaborando con gli alpeggiatori anche delle altre regioni e portando alla politica le nostre proposte. Noi le idee le abbiamo chiare, dobbiamo solo far capire agli altri le nostre ragioni prima che tutti gli alpeggiatori se ne vadano dalle montagne.”
manifesto antilupo piemontese
I pastori, allevatori, margari, contadini e gente comune della montagna piemontese,
firmatari dell’appello No  Parchi, no lupi! diffuso tra le valli nell’autunno 2015, dichiarano
con forza quanto segue:
  • il ritorno “naturale” dei lupi sulle Alpi è un racconto propagandistico. Un’analisi genetica accurata e soprattutto indipendente potrebbe facilmente dimostrare l’origine est-europea della gran parte della popolazione di lupi alpini.
    I pochi lupi rimasti in Abruzzo negli anni settanta all’interno del Parco nazionale si sono diffusi sugli  Appennini, ma non spiegano la comparsa improvvisa nei primi anni novanta di lupi sulle Alpi marittime tra Italia e Francia (quando la Liguria ne era ancora del tutto priva), dapprima solo all’interno o in prossimità dei due Parchi regionali delle Marittime e del Mercantour, né tantomeno analoghe presenze negli stessi anni nel Parco di Salbertrand in Valle Susa. Per anni la presenza fu negata e le predazioni attribuite a cani rinselvatichiti, fenomeno mai esistito sulle Alpi occidentali.
  • lupi e pastorizia non possono coesistere nello stesso areale: i predatori vanno allontanati dalle zone di pascolo delle Alpi
  • i lupi compromettendo il pastoralismo favoriscono l’avanzare dei boschi e riducono la biodiversità dei pascoli alpini;
  • lupi non più abituati ad essere cacciati dall’uomo diventano col tempo una minaccia reale alla vita umana (e non solo per i pochi montanari ma anche per i numerosi escursionisti);
  • l’uccisione, ora illegale, di lupi non è bracconaggio, ma legittima difesa della persona e degli animali. Occorre riconoscere il diritto naturale dell’allevatore alla difesa armata del proprio bestiame all’interno dei propri pascoli!
  • la colonizzazione dei lupi sull’intero arco alpino, auspicata e pianificata dal recente Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia, redatto dall’Unione Zoologica Italiana per il Ministero dell’Ambiente, è un progetto folle e delirante per chi in montagna lo subisce, ma che nasconde interessi concreti di soldi e finanziamenti per chi lo propone;
  • I “Parchi naturali” sono lo strumento amministrativo con il quale tali politiche falsamente ambientaliste vengono imposte alle comunità locali: vanno semplicemente aboliti, risparmiando risorse che potrebbero impiegarsi in modo ben più proficuo per la tutela dell’ecosistema e del paesaggio alpino, da secoli incentrate sull’opera dell’uomo contadino;
  • la responsabilità ultima della colonizzazione dei grandi predatori sulle Alpi ricade sulle politiche europee. L’unica soluzione efficace per risolvere a lungo termine il conflitto tra predatori e gente di montagna  è mettere in discussione la Direttiva Habitat e uscire dalla Convenzione di Berna: in effetti, la vera specie che rischia ormai l’estinzione sulle Alpi non è certo il lupo, ma l’essere umano, in particolare il contadino e la sua famiglia!

Piano lupo: i lupologi vogliono dettare legge ai pastori

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(19.12.15) Affidato dal Ministero dell’ambiente all’Unione zoologica italiana il Piano lupo dovrebbe diventare il fondamento per il prossimo quinquennio della strategia nazionale italiana di gestione (sic) del lupo. Redatto da 70 esperti compresi i dirigenti e funzionari responsabili delle regioni.  Tutti dipendenti pubblici e vincolati al rispetto dell’imparzialità dell’attività amministrativa ma tutti, con più o meno fanatismo, aggregati alla lobby. La faziosità pro parte ambiental-animalista dei funzionati regionali e provinciali degli uffici fauna è nota ma siglando questo delirante Piano dell’Unione zoologica l’hanno certificata e il cittadino non ambiental-animalista ne ricava la demoralizzante conclusione che i “pubblici servitori” da lui stipendiati servono interessi di parte palesemente contrari a intere categorie sociali.
 
Il Piano lupo è un clamoroso esempio di autoreferenzialità lobbysitica che, forte dell’abdicazione delle istituzioni al loro ruolo di salvaguardia di interessi comuni e di bilanciamento di interessi, senza inibizioni propone una visione di governance dello spazio agrosilvopastorale finalizzata alla diffusione del lupo e alla graduale soppressione delle attività antropiche tradizionali. Anche fuori dai Parchi (presidi di una visione padronale di controllo coloniale del  territorio montano e rurale), anche nelle “aree contigue”, anche oltre dove la lobby vorrebbe istituire delle Autorità di gestione del lupo con facoltà di dettare legge sull’esercizio della caccia e del pastoralismo. Il tutto sostenuto dall’azione intimidatoria e repressiva di un Corpo speciale di polizia pro lupo. La ciliegina sulla torta è la beffa di un controllo legale del lupo ammesso sulla carta ma condizionato a tali e tante condizioni da rendere impossibile abbattere legalmente forse anche un solo lupo in Italia.
Parrebbe un romanzo di fiction ma è la realtà dell’Italia attuale.
Questo piano così come formulato non passerà. Ma se i pastori, gli allevatori, i contadini, i cacciatori, le comunità dei piccoli centri di montagna e alta collina non sapranno esprimere in forma organizzata i loro interessi non si arresterà la strategia che utilizza la diffusione dei grandi predatori come grimaldello per desertificare la montagna e le aree rurali interne e porle sotto il controllo di grandi interessi economici decisi a sfruttare senza scrupoli ogni risorsa (lasciando una facciata di cartapesta di Parchi e di lupi).
Il Piano in dettaglio
Lo stato che il Piano definisce “di conservazione favorevole”  in realtà consiste in una condizione di continua espansione di areale e della consistenza della popolazione. Laddove il Piano si prefigge di “conservare” esso nasconde ipocritamente la volontà di “aumentare”. La lobby non può proclamarlo apertamente ma tutto il Piano è finalizzato ad espandere ulteriormente l’areale (sulle Alpi) ed ad incrementare nell’Italia appenninica la consistenza delle popolazioni lupine.
Le finalità del piano contemplano azioni di contrasto al controllo illegale della specie sino alla creazione di “nuclei speciali” (una sorta di louveterie all’incontrario) e alla penalizzazione di cacciatori, raccoglitori di tartufi , sino all’esclusione delle attività, venatorie, cinofile e di raccolta dei tartufi laddove vengano rinvenute esche avvelenate.
Cacciatori e raccoglitori di tartufi vengono criminalizzati quali categorie utilizzatrici di esche avvelenate per bieche rivalità interne facendo finta di ignorare che le esche, come da cronaca, sono spesso utilizzate da allevatori esasperati per un livello insostenibile di predazione. Per “conservare” il lupo il Piano propone, sempre tra le righe (a conferma di una reticenza e mancanza di trasparenza e onestà intellettuale di fondo), di limitare alcune forme di attività venatoria criminalizzando la braccata ma, in modo ancora più subdolo, proponendo l’estensione del divieto e comunque della limitazione delle attività venatorie nelle aree “contigue” sancendo la concezione dell’area protetta come Santuario della natura o più prosaicamente come centro di potere strumento di controllo del territorio e della spesa pubblica e di complessiva regolazione dello spazio rurale da allargarsi progressivamente alla buona parte del territorio agro-silvo-pastorale.
Che la la gestione del lupo rappresenti un veicolo di estensione del potere delle “centrali verdi” a danno delle popolazioni locali e delle attività tradizionali lo dimostra l’insistenza nel voler sottoporre le attività pastorali e venatorie a restrizioni e cambiamenti di regime sino a porle sotto il controllo e la sanzione (attuata negando lo stesso diritto di indennizzo per i danni da predazione) qualora gli allevatori non si attengano alle prescrizioni dei lupologi (reti, cani e altri sistemi di difesa passiva che in Francia ma anche in Piemonte hanno dimostrato – canta la carta dei verbali stilati dai veterinari pubblici – di essere gradualmente aggirati in forza della capacità del lupo di individuare spazi e tempi opportuni per colpire attraverso i punti deboli delle difese apportate). Riducendosi i greggi e le mandrie che frequentano le aree più a rischio i lupi – che trovano sempre più facile attaccare il domestico e che hanno già falcidiato le popolazioni locali di ungulati – concentrano i loro attacchi sugli ormai pochissimi greggi poco difesi risolvendosi poi a trovare i punti deboli delle difese d quelli che hanno adottato cani di guardiania e recinti “plurifilo” (o reti elettrificate).
La parzialità del punto di vista del Piano emerge lampante dalla totale assenza di considerazioni circa gli evidenti limiti dei mezzi di difesa passiva proposti e l’impatto psicologico, sociale, economico conseguenza dell’adozione di queste misure, impatto che va al di là di qualunque sussidio graziosamente concesso agli operatori “virtuosi” che si allineano alle prescrizioni lupologiche.
Per la maggior parte degli esponenti della lobby (compresi i funzionari pubblici) pastori, allevatori, cacciatori sono degli ignoranti pronti a truffare lo stato. Per loro quindi non ci dev’essere alcuna comprensione, prima cessano l’attività meglio sarà. In modo da restituire la montagna, la Natura alla sua presunta verginità.
Il conflitto tra i cani da guardiania e l’attività turistica è solo uno degli impatti negativi conseguenza dei “rimedi” alla presenza del lupo che creano ulteriori problemi agli allevatori. Un conflitto che sia in Francia che in Piemonte si è tradotto non solo in aspre polemiche, ordinanze comunali, denunce penali e sanzioni.
Un paradosso che dimostra solo la volontà delle istituzioni di assecondare la lobby. La Regione Piemonte da una parte condiziona gli incentivi del Piano di Sviluppo Rurale alla presenza del gregge/mandria di un cane da difesa ogni 100 capi, dall’altra alcuni comuni – timorosi della diserzione dei turisti – minacciano di non affittare più pascoli ai pastori/margari con più di 1-2 cani. Nessuno dei 70 esperti che con arroganza rara si arrogano di essere esperti di pastoralismo, di tecniche di pascolo, di benessere degli animali domestici ecc. si chiede come possano i pastori transumanti del Nord Italia costretti per ragioni di redditività a mantenere nel gregge 1000-1500-2000 capi a circolare per la Pianura padana altamente urbanizzata con 10-15-20 cani da difesa. Pare ce ne sia abbastanza per proclamare che la lobby giochi un gioco sporco.
 Non una parola da parte del Piano sulle difficoltà indotte dall’adozione delle misure di “difesa passiva” e sui loro limiti  ma la reiterazione del miracolistico effetto di mezzi che possono risultare efficaci in certe condizioni orografiche e di sistema pastorale ma non in altre. Tanta sicumera continua a basarsi sul logoro sporco trucchetto consistente nella vulgata della pastorizia abruzzese che non ha mai dimenticato la cultura della difesa dal lupo, dei pastori toscani di origine sarda antropologicamente avversi ad adottare misure di difesa per via di una cultura ancestrale modellata in assenza di lupo nell’isola. Parlando tra loro i pastori e gli allevatori hanno imparato a smontare questo trucchetto. Reiterato di recente anche in zone di recente introduzione del lupo (Lessinia) dove la tiritera ha assunto la forma: “In Piemonte i pastori hanno imparato a convivere”. Peccato non solo che la Lessinia sia completamente diversa dalle ali piemontesi ma anche che tra loro gli allevatori piemontesi e della Lessinia si parli no.
Pur non riconoscendo che i sistemi di difesa passiva abbiano limiti e controindicazioni il Piano entra nel merito della gestione dei sistemi stessi. La finalità ultima della lobby che consiste nel ridimensionamento sino alla sparizione delle attività di allevamento tradizionali è palese sia nell’analisi Swot, dove il “declino delle attività di allevamento tradizionali” è salutato come una “opportunità” per il lupo ma anche più concretamente e palesemente nel richiamare normative obsolete residuo di condizioni socio-economiche del tutto superate, quando si poteva assegnare un guardiano ogni pochi capi . Il Piano lo dice espressamente: sono auspicabili greggi e mandrie più ridotte con più custodi. Un decreto di morte subitanea perché solo con l’aumento dei capi gli allevatori hanno potuto compensare un prezzo della carne e del latte che in termini reali ha continuato a declinate. Un decreto di automatica attuazione se agli effetti economici della riduzione del numero dei capi imposta dalle necessità di difesa dal lupo si aggiungono ulteriori oneri di manodopera (ammesso e non concesso che sia reperibile una manodopera qualificata in grado di gestire la difesa dai predatori).
Mentre in Francia lo stato riconosce (e versa) ai pastori 10 milioni di € all’anno per compensare i maggiori oneri di lavoro indotti dalle necessità di difesa dal lupo (e ne riconosce altri 5 di indennizzi) in Italia non vengono risarciti neppure i capi palesemente predati.
Nessuno tra le diverse istituzioni e agenzie competenti si è mai preoccupato di stimare i danni del lupo e l’ammontare degli indennizzi versati. Gli “esperti” (gli stessi le cui firme figurano in calce al Piano lupo) stimano in 1-2 milioni di € i danni provocati dal lupo. Vogliono far credere che i 2000 lupi sul territorio della Repubblica italiana provocano solo una frazione dei danni causati nella vicina Republique. Il fatto è che – almeno su questo punto – lo stato francese si comporta da stato che si prende la responsabilità di censire i lupi, di monitorarne i danni e di indennizzarli. Lo stato italiano si comporta da cialtrone, assecondando gli interessi delle lobby e trattando da servi della gleba i gruppi sociali che rappresentano interessi dispersi e non in grado di tradursi in pressione politico-lobbystica.
Le regioni hanno trovato ogni scusa per sottrarsi al dovere di rispondere per i danni provocati da animali di loro proprietà (la fauna nella legislazione italiana è “proprietà indisponibile dello stato” che ha delegato alle regioni la materia). Eppure non più tardi della scorsa estate un tribunale ha riconosciuto il dovere della Regione Abruzzo di risarcire la vita di un giovane di ventisette anni che perse la vita nel 2008 a causa di un incidente stradale provocato da un lupo. Per “giocare sporco” hanno spesso affidato a broker assicurativi privati la materia degli indennizzi con conseguenze facilmente immaginabili. In alcuni casi si chiede all’allevatore di contribuire ai premi assicurativi, in altri si pongono limiti assurdi ai risarcimenti. In Piemonte (regione “virtuosa”) gli allevatori stanno gradualmente rinunciando a presentare denunce considerando che la trafila burocratica implica la perdita di intere mezze giornate. Cosa che un pastore e un margaro (anche se hanno un aiutante) non possono permettersi. In Piemonte i bovini adulti, che pure sono stati ripetutamente predati, sono esclusi dall’indennizzo in quanto “capaci di difendersi”. Eppure i verbali di accertamento di predazione parlano di capi fatti diroccare dai lupi (e da essi consumati), di capi con lesioni agli arti o alla testa provocati dalla fuga precipitosa su terreno cosparso di massi, di capi spinti contro una parete di roccia e privati di via di fuga. In Lombardia l’indennizzo ha un massimale di 4000 €. La pecora bergamasca da macello (90 kg) vale 150 €, se da vita 200-300€. E’ sufficiente che i lupi causino la perdita di una ventina di pecore per raggiungere il massimale. Due anni fa un gregge transumante nell’Oltrepo pavese era stato attaccato dal branco di Rocca Susella e decine di pecore erano cadute nel torrente Staffora, trascinate dalle acque verso il Po. Lamentele ancora peggiori giungono dalle regioni centro-meridionali.
Ridurre le attività tradizionali per il Piano significa “mitigare” il conflitto, ovvero mettere allevatori e pastori nelle condizioni di non poter più svolgere la loro attività. La “pace dei cimiteri” si sarebbe detto un tempo.
Gli ambientalisti in buona fede (che ben farebbero a darsi una diversa etichetta) dovrebbero comprendere che il fine della lobby del lupo è quello di eliminare le attività di allevamento estensivo (artigianali e indipendenti dalle organizzazioni globali di produzione e distribuzione del cibo) a favore di attività zootecniche industriali. La Confédération paysanne in Francia proclama da tempo che il lupo (la lobby, perché il lupo è strumento e vittima dei suoi “amici”) è il miglior alleato della distruzione dell’allevamento estensivo e del progresso delle “fabbriche del latte e della carne”. L’allevamento estensivo è veramente “sostenibile”, fattore di biodiversità, di protezione da calamità (incendi, frane), di benessere animale, di riproduzione di saperi e cultura. Lo hanno proclamato cinquanta tra studiosi, ricercatori, intellettuali francesi di varie discipline che nell’ottobre 2014 hanno redatto un “Appello perché gli ecosistemi non siano abbandonati dai pastori” sottoscritto anche da Carlin Petrini e pubblicato il 13 ottobre dal quotidiano Liberation.
L’ideologia della lobby (come di tutto l’animal-ambientalismo di matrice urbana) è invece quella della scissione tra ecosfera e sfera dell’attività economica e in generale umana di cui viene promossa la graduale artificializzazione. La presunta “natura incontaminata” deve essere sottratta al “disturbo antropico”. La conseguenza è quella della progressiva industrializzazione-artificializzazione dell’attività e della stessa vita umana. L’industria e l’apparato tecnoscientifico (difficili ormai da distinguere) stanno promuovendo l’artificializzazione della vita spostando sempre più la frontiera della manipolazione della riproduzione e della stessa costituzione genetica (umana e animale). Nel campo della produzione alimentare il complesso industriale-tecno-scientifico sta promuovendo la realizzazione di fabbriche di animali clonati (in Cina) mentre in diversi laboratori si sta sperimentando la coltura in vitro di tessuti animali per la produzione di carne artificiale. La prospettiva è che non esisteranno più animali e piante in simbiosi con l’uomo e neppure lo stesso uomo, almeno come lo conosciamo. Dall’uomo prodotto in provetta con un genoma programmato all’umanoide in cui i circuiti al silicio sostituiscono le strutture biologiche il passo non tarderà molto.
La “naturalizzazione”, l’idolatria della Natura nascondono il loro opposto, sono solo l’altra faccia della medaglia del progetto tecnocratico iperindustriale che si fa portavoce del sistema di potere basato sui due motori della finanza speculativa e della tecnoscienza. Sul cammino di questo progetto antiumano i pastori, i contadini, i montanari, le comunità delle aree rurali interne – meno facilmente manipolabili delle masse urbane – rappresentano un sia pure piccolo ostacolo.

Un ostacolo che va abbattuto in barba alle facciate ideologiche della “democrazia” e della “partecipazione”. La governance dello spazio agrosilvopastorale (o di quello che era un tempo tale) è una governance neoautoritaria e neocentralista dove non solo gli attori, i gruppi sociali presenti sul territorio hanno possibilità di esprimere i proprio orientamenti e i propri interessi ma dove essi sono privati di informazioni o sottoposti a campagne di disinformazione e di propaganda. Il nascondere la presenza del lupo nelle aree di nuova espansione (almeno sin quando essa è palese, consolidata e difficilmente reversibile) è esempio tanto evidente quanto frequente di quella stategia di disinformazione che nella sua arroganza la lobby teorizza anche in atti pubblici, nei “manuali” allegati alle risultanze dei tanti progetti milionari di cui essa beneficia. Ma la disinformazione non basta; c’è anche la strategia della denigrazione (chi contesta i tecnocrati verdi è gratificato quale “ignorante” e “arretrato”) e quella della repressione e dell’intimidazione. Il Piano prevede, come già osservato l’istituzione di un Corpo speciale di polizia in difesa del lupo con la scusa del “bracconaggio” e azioni di rappresaglia a danno di pastori e cacciatori dovunque vengano trovate esche avvelenate (grazie alle squadre di cani appositamente addestrate di cui dovrebbe essere dotata la Polizia pro lupo). Vietare il pascolo o la caccia laddove si rinvenga non già un lupo ucciso ma solo un esca è un mezzo infallibile per gettare benzina sul fuoco del conflitto sociale. Gli “esperti” del Piano Lupodimostrano una conoscenza del conflitto sociale pari a zero e comunque inferiore a quella di un qualsiasi laureato triennale di sociologia. Insultare interi gruppi sociali e proibire l’esercizio di attività lecite da parte di cittadini che hanno titolo per esercitarle per “rappresaglia” rappresenta una regressione della civiltà giuridica a tempi lontani.
I tempi dei signorotti e dei servi della gleba che la lobby del lupo rimpiange. Oltre che falsamente ambientalista essa è infatti falsamente progressista come dimostra l’identificazione  in animali che sono stati simbolo di culture che esaltano la sopraffazione, la violenza, l’aggressività. Non occorre risalire agli ulfendhnar, guerrieri-lupo delle tradizioni norrene, basta pensare alle SS e ai werwolf, gli irregolari nazionalsocialisti operanti dietro le linee nel 1945.
A suggello di una governance lupocratica in grado di espropriare anche fuori dei Parchi la capacità di controllo sul territorio dei comuni e dei gruppi sociali locali vi è la proposta di creare delle Autorità di gestione del lupo. Ovvero autorità con facoltà di coordinare la gestione del territorio agro-silvo-pastorale in senso favorevole al lupo. Come? Contando sui collaudati meccanismi di autoreferenzialità e di moltiplicazione della rappresentanza del mondo animal-ambientalista attraverso le sue varie espressioni dell’ambientalismo istituzionale (WWF, Legambiente) e dell’animalismo con varie gradazioni di spirito militante (Enpa, Lav, Pro natura ecc.). Facile prevedere che in tali organismi le rappresentanze della parte venatoria e agricola saranno minoritarie, spesso manipolabili in quanto non specificamente selezionate sulla base della connessione con le realtà di base e non sufficientemente motivate, attrezzate in senso tecnico e culturale, coordinate. L’ovvio risultato sarà quello di dare campo libero allo schieramento lupocratico pronto ad approfittare di ogni occasione per togliere spazi e voce agli interessi locali.
Ovviamente questa governance neoautoritaria conta sul fatto che l’orientamento politico generale è attualmente favorevole allo smantellamento delle autonomie locali, all’eliminazione dei comuni di montagna (auspicabilmente da aggregare a grossi comuni di fondovalle o pedemontani).
Tutto quanto considerato sinora consente alla lobby di crearsi condizioni favorevoli per la sua politica. Essa, però, non può ancora proclamare apertamente i propri obiettivi. L’espansione numerica e geografica del lupo è possibile quanto più si indeboliscono i presidi rurali, la presenza diffusa di allevatori, pascoli utilizzati. Il “contrasto al bracconaggio” è solo una messa in scena.
E’ palese che nessuno intende sul serio contrastare il “bracconaggio”. Come sostenuto dallo stesso Boitani in più occasioni il bracconaggio toglie le castagne dal fuoco a Regioni, Parchi, ambientalisti, lupocrati. Se non ci fosse il controllo numerico illegale del lupo la specie di espanderebbe eccessivamente anche per i gusti dei lupofili e lupocrati. Crescendo la presenza anche in aree intensamente coltivate e con attività di allevamento intensive contro il lupo si rischia (dal punto di vista lupofilo lupocratico) di suscitate opposizioni forti in grado di compromettere la governance del lupo a livello nazionale. La Lessinia che appartiene al tempo stesso  alla realtà montana e a quella dell’allevamento intensivo indica già quali problemi solleva la presenza del lupo in un contesto di zootecnia da latte con un densa presenza di aziende sul territorio parte importante della realtà sociale locale. In Lessinia contro il lupo si sono schierati i sindaci (anche se poi alcuni continuano ad appoggiare il Parco), si sono mosse associazioni di categoria, si è mosso il sindaco di Verona, la provincia. Una reazione che non trova riscontro quando il lupo “picchia” in realtà disperse e marginali. Il “bracconaggio” frena anche l’arrivo del lupo nelle aree periurbane dove, sempre dal punto di vista lupofilo, vi è un rischio molto grave: che l’opinione pubblica alle prime notizie di avvistamenti, “incontri ravvicinati” muti rapidamente l’atteggiamento superficialmente lupofilo in uno lupofobo. La storia del Trentino insegna qualcosa. Quando l’orso ha aggredito e mandato all’ospedale delle persone in comune di Trento o in un comune limitrofo il già declinante consenso alla presenza degli orsi è crollato.Il “bracconaggio” quindi è una manna per gli ambientalisti e le istituzioni ignave. Si tratta di una vera azione di controllo della popolazione. 100-200 capi eliminati ogni anno secondo le stesse stime dei lupologi che nella loro altezzosa arroganza non si preoccupano se esse sono palesemente incompatibili con altri due dati: l’espansione, sotto gli occhi di tutti della specie e l’altro, taroccato, ovvero le stime “ufficiali” della consistenza numerica della stessa. Perché i lupologi tarocchino la stima “ufficiale” della popolazione lupina (ferma a 1000 esemplari) è abbastanza chiaro. Innanzitutto non potrebbero accedere ai canali privilegiati di finanziamenti europei se la specie non fosse in perenne “pericolo” come essi sostengono in barba ad ogni evidenza empirica, in secondo luogo in assenza di una stima certa il Ministero (sentita l’Ispra che a sua volte sente il Comitato scientifico ovvero la lupologia e gli ambientalisti) ha potuto respingere in modo ineffabile le richieste di piani di controllo selettivo più volte avanzate dalle Regioni. Vale la pena di osservare per apprezzare il livello di squallore del Piano che esso riporta che “nessuna regione ha mai avanzato richiesta di attivazione della deroga per l’abbattimento selettivo di lupi”. La sola Regione Piemonte l’ha fatto due volte, la prima quando era assessore all’agricoltura il pd Taricco (oggi onorevole), l’altra quando era assessore l’ex leghista Sacchetto. Eppure tra i firmatari del Piano ci sono anche funzionari piemontesi.  Vale la pena ricordare che l’argomento della “mancanza di dati” sollevata – si badi bene –  nel caso di una regione che aveva speso milioni con il Progetto lupo per monitorare i branchi . A controprova che i Comitati scientifici (foglia di fico dietro la quale il Ministero nasconde la sua ignavia) sono in realtà Comitati politici è bene ricordare che nella risposta alla “inesistente” richiesta della regione Piemonte si obiettò anche che non era possibile abbattere alcun capo a causa della “sensibilità dell’opinione pubblica” (aspetto questo del tutto non pertinente con un parere sul piano gestionale).Quanto avviene in materia di controllo numerico del lupo (non un capo può essere abbattuto legalmente nonostante ricorrano tutte le circostanze previste dalla Direttiva habitat  per l’attivazione delle deroghe al regime di protezione)  rappresenta un classico esempio di italica ipocrisia. Dopo “Divorzio all’italiana” di potrebbe girare un film: “Controllo del lupo all’italiana”. In realtà il bracconaggio non esiste o, nel caso del lupo, è realtà marginalissima (come quel balordo genovese, caso unico di bracconiere di lupi condannato, che ostentava al collo una collana con le zanne di sei lupi da lui uccisi). Nel 99% dei casi i lupi non sono uccisi da bracconieri ma da pastori, abitanti di località isolate (cacciatori o no) che non si risolvono a rischiare una condanna penale per divertimento, per sport, per senso di sfida ma per legittima difesa, per tutelare la propria attività la sicurezza propria e delle persone con cui vivono e lavorano. L’uccisione dei lupi è percepita dal gruppo sociale dei pastori e degli allevatori e dalle comunità locali non solo come una rischiosa necessità che supplisce all’ipocrisia di stato e alle falsità ambientaliste ma anche come una doverosa e legittima forma di resistenza sociale. Se “passano” i lupi, se essi arriveranno a condizionale la vita locale o a desertificare ulteriormente borgate e vallate minori allora per la montagna per le alte colline interne non c’è speranza. Infine c’è la componente di protesta (le carcasse o i trofei ostentati) che, però, riguarda solo poche situazioni di particolare esasperazione. Nella stragrande maggioranza dei casi chi elimina il lupo cerca di farlo nel massimo silenzio facendo sparire ogni traccia.

Quando il Piano lupo proclama la necessità di una lotta diretta al “bracconaggio” fa solo un esercizio di propaganda. Il “bracconaggio” non esiste ed essendo una forma di legittima difesa e di resistenza sociale l’approccio repressivo e le ritorsioni non possono che esasperarlo. Dal momento che il controllo illegale del lupo è non solo importante ma necessario i piani antibracconaggio si tradurranno in sperpero si spesa pubblica e in qualche esibizione “muscolare” di facciata.

La lotta “diretta” alle cause di mortalità antropogenica non ci sarà. Fa troppo comodo che i lupi vengano eliminati in silenzio consentendo alle istituzioni (che dopo il caso Daniza tremano all’idea di dover giustificare, di fronte ad un’opinione pubblica aizzata dagli animalisti , l’uccisione legale di orsi e lupi). Se il Piano perseguisse sul serio la riduzione della mortalità si assisterebbe ad un aumento del tasso di crescita non solo nelle aree di espansione (Alpi) ma anche sugli Appennini.

Il Piano pertanto quando proclama di voler “conservare” la popolazione in realtà non riesce a dissumulare che quello che persegue non è solo l’espansione territoriale sulle Alpi ma l’aumento numerico delle popolazioni lupine. Proclamare, che in Toscana o in altre regioni “calde” i lupi debbano aumentare è politicamente “complesso” e quindi si finge di perseguire la “conservazione”. L’ipocrisia si rileva nella reticenza nell’ammettere la condizione di incremento numerico e di espansione di areale della specie (studi scientifici lasciano ritenere che la consistenza reale della popolazione lupina italiana raggiunga e superi i duemila individui ). In realtà l’obiettivo è quello di mantenere ai livelli attuali il “bracconaggio” così da ottenere in presenza dell’aumento dei branchi (sulle Alpi e sugli Appennini), in presenza di una progressiva “ritirata” dell’uomo, un aumento numerico fino ad avvicinarsi agli obiettivi indicati dalle mappe di “vocazionalità territoriale”. Esse, non tenendo conto della presenza delle attività umane (tranne le strade in quanto ostacolo e causa di mortalità del lupo), basandosi solo sulle caratteristiche orografiche e vegetazionali dei territori, facendo finta che l’uomo si sua già estinto,  arrivano a preconizzare la presenza di 2000 lupi solo sulle Alpi.

Non mancano nel Piano affermazioni palesemente prive di ogni fondamento oggettivo quando non palesemente false e fuorvianti. Così come quando si reitera l’identificazione del capro espiatorio dell’ibridazione nei pochi allevamenti di   Cane lupo cecoslovacco sfidando impavidamente l’ovvio rilievo che si tratta di un numero esiguo di esemplari di grande valore commerciale il cui abbandono o rilascio non può spiegare che una frazione infinitesimale del fenomeno. Le osservazioni velatamente critiche sulla gestione dei Centri di recupero e degliZoo del lupo (di cui non si può fare a meno di rilevare i costi esorbitanti ma anche la discutibile gestione della riproduzione in cattività e nel rilascio di soggetti dopo lunghi periodi di contatto con l’uomo) lasciano intendere che la presenza di ibridi e di lupi non autoctoni allo stato selvatico non può essere ascritta solo al mancato controllo o abbandono da parte di cacciatori, contadini residenti in aree rurali ma anche ad altri fenomeni illeciti di tutt’altra natura.

A fronte della costante riduzione della popolazione rurale, degli allevatori e dei cacciatori e quindi alla tendenziale contrazione di almeno alcune delle componenti del fenomeno dei cani vaganti l’aumento della presenza di ibridi è palesemente da mettere in relazione alla conquista da parte del lupo di areali antropizzati dove era stato eradicato in tempi precedenti al secolo. Tale conquista è il risultato della scelta di non controllare la specie ma di lasciare a sé stesse le dinamiche di espansione territoriale. Una scelta ideologicamente lupofila che fa pagare (non paradossalmente) al lupo lo scotto della sua strumentalizzazione come bandiera. Uno scotto che si traduce in una penalizzazione dell’integrità genetica del lupo vittima di un “successo biologico drogato” (agevolato), non controbilanciato dalla prudenza nell’evitare l’espansione in aree non storiche e non vocate contigue a quelle a forte antropizzazione.

 

Ma la prova provata che l’obiettivo del Piano non è la “conservazione” ma l’espansione geografica e l’incremento numerico è rappresentata dalle condizioni poste dalle deroghe. Delle varie (sono cinque) fattispecie di attivazione delle deroghe il Piano ne salva solo una (quella legata alla sicurezza e a gravi conflitti sociali). Dimostrando che la consistenza del lupo deve essere considerata variabile indipendente e che gli interessi economici degli allevatori sono una variabile dipendente il Piano non prende in considerazione la fattispecie contemplata dalla Direttiva Habitat del “grave danno economico”. Sostituendosi al legislatore il Piano cassa questa previsione come non fondata scientificamente e sostanzialmente afferma che l’attivazione della deroga non deve essere messa in relazione alla pressione predatoria. In realtà il principio della teorica possibilità di ricorso alla deroga per consentire alla rimozione di singoli capi sottostà a tali e tante condizioni da determinarne di fatto la certa inapplicabilità della previsione. Per di più mentre in altri paesi europei con popolazioni lupine molto meno consistenti (sia in termini assoluti che di densità territoriale) si attua un prelievo del 10% (in Francia quest’anno è possibile abbattere 36 esemplari su una popolazione stimata di poco più che 300 capi e lo stesso vale in Svezia con il prelievo di 20 su 200) il Piano prevede che il numero di capi abbattuti non possa eccedere il 5% del valore della stima al ribasso. Giocando sulla mancanza di stime precise (per le quali si richiedono cospicui finanziamenti per studi e ricerche “complesse, lunghe e costose” ovvero per mantenere in efficienza la macchina lupologico vitaminizzata da 18 progetti Life) il numero di capi ammissibili sarà irrisorio. Ma sarà praticamente impossibile trovare un comune che soddisfi contemporaneamente a tutti i requisiti incrociati previsti (presenza di danni spra la media, monitoraggio, assenza di bracconaggio ecc. ecc.).

Se il numero degli abbattimenti legali sarà sempre uguale a zero e se le consistenti risorsi e molteplici azioni a contrasto del bracconaggio saranno sia pur parzialmente efficienti l’espansione del lupo è assicurata. E in questo quadro, in questa tela di ragno abilmente tessuta dalla lupocrazia, il problema del conflitto si risolverà con la sparizione in molte aree del paese dell’attività venatoria e pastorale. A cosa serve dunque la previsione di un sia pure minimo controllo?

A dimostrare, come ammette lo stesso Piano una “flessibilità” di facciata, furbesca, che non esiste. Servirà solo ad ostacolareun coagulo di consenso intorno alle popolazioni rurali e montanare che si oppongono alla diffusione del lupo contrastando quella erosione del l’accettazione sociale generica a favore di “Grandi predatori” mitizzati che si verifica quando essi si materializzano come problema e minaccia concreta, non di remote “aree marginali” ma di aree con forte densità abitativa. E’ l’effetto che deriva dallo scoprire che i profeti dei Grandi predatori ignorano semplicemente che l’Italia è – nonostante urbanizzazione e stati demografica – un paese con una densità umana superiore di diversi ordini di grandezza agli sconfinati scenari nordamericani dove l’ideologia conservazionista, parchista, grandipredatorista si è sviluppata per essere importata come strumento di colonizzazione culturale e di trasformazione socioterritoriale nel senso gradito ai grandi interessi economici mondiali.